Nel podio dei prodotti che compongono la gastronomia gavoese spicca il Fiore Sardo, pecorino stagionato a pasta cruda dagli aromi e sapori intensi, la cui caseificazione, nelle mani di poche decine di pastori, segue ancora le procedure artigianali, conferendo al formaggio un’altissima qualità.

Unico cacio ovino a latte crudo ad aver ottenuto la Denominazione d’Origine Protetta (DOP), il Fiore Sardo è un formaggio dal forte valore identitario, vanto delle produzioni latte-caseario isolane e in cui si ritrovano conoscenze e saper fare condivisi e tramandati attraverso le generazioni.

La sua origine si perde nel tempo e nonostante il passare dei secoli, ogni forma di Fiore Sardo continua ad essere creata seguendo un processo produttivo praticamente immutato: le mani esperte dei pastori – gli stessi che hanno preservato tale patrimonio, trasformano il latte ovino fresco in un cacio dalle inconfondibili caratteristiche, nel sapore e nell’aspetto, che rendono ogni produzione precisa e unica.

Di latte intero e crudo, di ovini di razza sarda allevati in tutto il territorio regionale, il Fiore Sardo trova origine negli ovili dei monti interni della Sardegna, in particolare in Barbagia dove Gavoi si esprime tra i principali produttori.

Già dai primi del Novecento questo formaggio conquistava i mercati americani e trovava un assiduo riferimento in quelli liguri e pugliesi dove, conosciuto anche come il Gavoi, si integra magnificamente con la gastronomia tradizionale.

Nonostante i quantitativi di formaggio prodotto siano oggi più contenuti rispetto al passato, la produzione del Fiore riveste tutt’ora una notevole importanza, non solo per le caratteristiche di unicità e tipicità, ma anche per il suo stretto legame con il territorio, il patrimonio culturale e il contesto produttivo storico inserito nell’economia sarda.

La tecnica di produzione

Un sapore deciso, avvolgente, sapido, con sfumature di pascoli e affumicatura su cannitza – il graticcio di canne – per un formaggio dalla denominazione piuttosto gentile.

Al pari della tecnica di produzione, anche l’origine del nome, Fiore, si perde nel tempo: sembra che derivi dal giglio stilizzato inciso sul fondo degli stampi di legno di perastro, su cui venivano spesso apposte anche le iniziali del produttore.

È pur vero che tale modalità di marcatura non era l’unica e i pastori-casari si affidavano alle tecniche più variegate per distinguere il proprio prodotto: alle volte era sufficiente un pezzo di sughero apposto su un preciso punto della forma per rendere riconoscibile la propria produzione.

Accadeva nel tempo in cui gli ovili stanziali erano pochi e spesso più pastori si ritrovavano a svernare nello stesso luogo; era il tempo che ha preceduto i bollini certificati e anche quello in cui il formaggio, oltre che seguire la naturale stagionatura, si arricchiva delle storie attorno al fuoco, a fine giornata, le stesse che gli conferivano, per certi versi, un sapore ancora più ricco.

Se i marchi, vecchi e nuovi, rendono immediatamente visibile la provenienza del formaggio, a far risultare impareggiabile ogni forma è l’unicità degli aromi che derivano dai pascoli dell’Isola, dove le essenze più variegate conferiscono al latte un’ottima qualità.

Il risultato dalle forti impronte sensoriali è dovuto alla lavorazione del latte crudo, un processo che permette di conservare le componenti aromatiche e microbiologiche e che si
accompagna a gesti vecchi di millenni:

l’accensione del fuoco, il latte appena munto versato nella caldaia – su lapiolu; la paziente attesa per raggiungere la giusta temperatura (33-35°), poi la coagulazione, facilitata dall’utilizzo di caglio di agnello o capretto prodotti dallo stesso pastore.

Poco meno di una mezz’ora e si procede con la rottura della cagliata, prima frantumata finemente, poi adagiata sul fondo: le braccia del pastore-casaro si immergono nel liquido tiepido recuperando pezzi di massa irregolari che iniziano a prender forma negli stampi. Seguono spurgo, scottatura, salamoia, affumicatura e stagionatura, con precisi tempi e altrettante attenzioni.

Dall’ovile alle cantine: la stagionatura

La maturazione del formaggio, a differenza delle fasi precedenti che si svolgevano negli ovili, avveniva nelle cantine fresche e asciutte – magasinos – ricavate dai piani inferiori e seminterrati delle case di granito, in paese.

Il formaggio passava dalle mani del pastore a quelle delle donne della famiglia: madri, mogli e figlie che curavano il processo di stagionatura, manipolando il prodotto, rigirandolo e ungendolo periodicamente con una miscela di aceto di vino e olio d’oliva, per mesi.

Il profumo si espandeva per i vicoli del paese, soprattutto d’estate, quando i locali venivano aperti per accogliere il fresco della sera e favorire un’ottimale maturazione, prima che le forme prendessero le vie dei mercati per raggiungere tante tavole.

In cucina

Il Fiore Sardo è un formaggio che si conserva bene per lungo tempo e mantiene inalterati sapore e consistenza anche dopo averlo porzionato.

Fresco o stagionato, si presta a vari abbinamenti e ricette, della tradizione sarda e non.

Appena fatto – e senza metterlo in salamoia – viene lasciato leggermente inacidire per alcuni giorni poi fuso e lavorato per fare culurzones (ravioli) e sebadas; giovanissimo si può consumare a tavola, per spuntini veloci, come aperitivo o a fine pasto oppure fritto, arrosto o fuso con le fave fresche.

Nella versione grattugiata corona i culurzones di formaggio fresco o ricotta, viene spolverato su ogni tipo di pasta, sulla polenta, le minestre, il pane frattau e sul pane fresa, assieme al pomodoro fresco. Fa capolino nel pesto alla genovese e si sposa bene con salumi, patate arrosto, e l’immancabile bicchiere di vino rosso.

In un’epoca di omologazione dei sapori, il Fiore Sardo continua a conservare uno spazio di rilievo tra i gusti che più sono connessi al territorio:

il fiore artigianale lo si riconosce perché si forma assieme alle storie di chi lo crea.

Al re della tavola barbaricina è dedicato il Museo del Fiore Sardo.