Le lavorazioni di pane e pasta rappresentano quei processi che conservano l’essenza dei riti dalla grande valenza simbolica e condivisa, capaci di definire precise fasi di vita o dell’anno.
Pane e pasta, ottenuti con lavoro e fatica, erano ovunque un bene raro e prezioso: se c’era il pane, c’era tutto; considerato cosa santa, si maneggiava con gran rispetto, era spesso usato per retribuire prestazioni di lavoro e costituiva segno di cortesia e ospitalità.
Il pane si offriva a chi si presentava in casa quando era stato appena sfornato e nell’aria sostava ancora la fragranza, e per un buon amico si potevano regalare due o tre pani di semola pintaos, oltre che la carne, come accadeva a Gavoi in occasione della festa di sant’Antioco.
L’intero controllo e gestione dell’attività panificatorie era in mano alle donne: dalla preparazione del grano e della farina alla manipolazione della pasta, dal dosaggio di lievito e sale alla cottura. Si doveva tener conto anche di caldo, freddo o umidità; qualità e quantità di legna da utilizzare, temperatura del forno, tempi di lievitazione e, talvolta, anche di influenze benefiche, prontamente favorite da segni, scongiuri e benedizioni.
La realizzazione del bene più prezioso delle tavole era un insieme di grandi e piccoli accorgimenti che hanno costituito per generazioni un immenso sapere, fonte di nutrimento e sostentamento.
Il pane di Gavoi
In una comunità a forte vocazione agro-pastorale anche il pane era declinato per rispettare le esigenze di coloro che dovevano trascorrere i mesi invernali lontano da casa per seguire le greggi in pascoli più miti.
Al pastore transumante delle montagne doveva essere garantita la sussistenza e l’autonomia alimentare, compito a cui rispondeva il pane a lunga conservazione, quel carasau biscottato capace di durare per diversi mesi.
Pane fresa e còrrias: le versioni del carasau di Gavoi
A Gavoi il pane carasau assume due versioni: su pane fresa e sas còrrias.
Il pane fresa (dal sardo fresare, tagliare il pane dividendolo in due sfoglie prima di rimetterlo in forno per tostarlo) ha forma rettangolare, come un libro a quattro fogli con i bordi esterni arrotondati e una composizione particolare che aiuta a mantenerlo integro: una sfoglia sottile – perra fine, e una più spessa, perra grussa, che avvolge la prima, entrambe ripiegate a due spessori.
Le due consistenze dipendevano da manualità, velocità e precisa gestione dei tempi dell’addetta al forno: spettava a lei riconoscere l’esatto momento in cui far scivolare la pasta nel forno, girarla velocemente, farla gonfiare e sfornarla.
La sfoglia più grossa è quella utilizzata nel pane frattau, in accompagnamento ai bolliti di pecora e maiale, immerso nei rispettivi brodi, o spezzettato in sa frente, il sangue di pecora; il pane fresa si riscopre delizia anche quando fa da letto agli arrosti, affianca s’erbuzu, si veste di un filo d’olio da guttiau o di uno strato di pomodoro fresco e spolverata di fiore sardo grattugiato da imbrattau.
Sas còrrias (da còrriare, rotolare, come succede quando il pane, rigonfio e tondeggiante, esce dal forno, rotolando appunto), rappresentano la versione tonda e sottile del carasau gavoese, meno resistente rispetto al fresa e per questo, prima, riservato solamente alle occasioni più speciali.
La panificazione
L’attrezzatura utile a panificare era presente in tutte le case e ogni membro della famiglia (femminile, in particolare), era coinvolto nel lungo processo che iniziava la sera, riprendeva prima dell’alba successiva e alle volte, a seconda delle quantità, proseguiva anche il giorno dopo ancora.
I tempi erano definiti dai ritmi di quella pasta che le donne stiravano, rigiravano e manipolavano; dallo scoppiettio del fuoco che scaldava il forno e dalla paziente attesa della lievitazione, momento di riposo e sosta che concedeva un caffè e qualche chiacchiera, prima di riprendere l’opera.
In un perfetto circuito operativo, nella fase di cottura ognuna occupava spazi e ruoli ben definiti: di mano in mano, e da una tavola all’altra, la pasta veniva spianata sempre più sottile fino a raggiungere forma e consistenza desiderati, consegnandola pronta all’addetta al forno.
Velocemente sfornato, il pane giungeva alle mani di colei che aveva il compito di separare le due facce e disporle ordinate a raffreddare, prima della biscottatura.
La cotta contemplava anche la confezione di altre tipologie di pane destinati al consumo immediato e che in passato arricchivano l’alimentazione quotidiana: sas costeddas, soffici spianate dalla forma rotonda, o i pani conditi con prodotti stagionali, come su cocone cun foza, il pane di patate cotto sulla foglia del cavolo, o cun gherdas, i ciccioli di maiale.
Alla discreta lista delle lavorazioni si aggiungono i pani dolci e delle feste: è il caso de su cocone cun sapa, con sapa, noci, mandorle e miele, o su cocone pintau, un pane di semola dalle variegate forme che veniva realizzato per Pasqua e la festa di Sant’Antioco.
Sebbene la panificazione domestica non sia diffusa come qualche decennio fa e la produzione dell’alimento sia perlopiù demandata ai panifici artigianali, l’arte del pane fatto in casa non si è persa del tutto.
Nonostante nuovi stili di vita e innovazioni tecnologiche abbiano preso il sopravvento, le donne non hanno rinunciato all’enorme sapere, rendendosi capaci di preservare e trasmettere materie, consistenze, sapori, forme e la magia della pasta che si rigonfia come un palloncino al calore del fuoco, prima di sprigionare nell’aria uno dei profumi più intensi che l’umanità è riuscita a sviluppare, quella del pane appena sfornato.
La Pasta
Rimacinato di semola di grano duro, acqua, un pizzico di sale e una manipolazione continua sino a raggiungere la consistenza perfetta.
La lavorazione della pasta permette di creare i manicaretti più gustosi per grandi eventi o normale quotidianità: da attenti gesti prendono vita ravioli, di formaggio o ricotta, dolci e alati, sebadas, macarrones curtzos (gnocchetti) o pistizone, una sorta di fregula che veniva usata nella minestra.
Nell’infanzia di tanti gavoesi, quando si doveva cuprecàre, ovvero lavorare la pasta e il ormaggio fresco per farne ravioli, era un grande evento.
La preparazione coinvolgeva l’intera famiglia poiché dalla bravura di uomini e donne sarebbe dipeso il gustoso finale: mentre i primi preparavano e portavano in casa una grande forma di pecorino fresco, le seconde se ne prendevano cura per qualche giorno, tenendola al caldo. Al momento giusto, sempre le donne, ne tagliavano un pezzo, lo accostavano al fuoco e se quello filava si poteva dare il via alle golose danze.
Osservare il grado di filatura è il primo passo nella creazione del ripieno de sos culurzones e casu friscu, i ravioli di formaggio gavoesi. Quello successivo consiste nello sminuzzare in na casseruola l’intera forma, farla sciogliere al calore, amalgamarla con la farina per creare, infine, grandi pani che, una volta raffreddati, vengono tagliati in piccoli quadretti.
Ad avvolgere questo cuore di cacio, la delicata sfoglia che dava alla luce uno dei piatti più gustosi della tradizione, con l’immancabile spolverata di Fiore Sardo stagionato.