In una società fondata sulla pastorizia e l’agricoltura, niente veniva lasciato al caso e ogni frutto della terra diveniva un prezioso prodotto da consumare.

Ulteriori sapori venivano offerti dalle erbe spontanee che, accuratamente dosate per rispettare le sfumature di gusto, si univano in s’erbuzu, la minestra di erbe selvatiche.

La grande conoscenza sulle piante commestibili era tradizionalmente affidata alle donne che, tramandando il sapere alle proprie figlie, hanno permesso di preservare una pietanza tanto semplice quanto ricca, nella cui preparazione è coinvolto ogni senso: la vista e il tatto, fondamentali per la raccolta; l’olfatto e il gusto, basilari nella creazione di una equilibrata combinazione di sapori che rendono unico il piatto.

Àpara (aglio selvatico), enucru agreste (finocchio selvatico), lampàtzu caulesu (romice con sapore di cavolo), mammalùca (latticrepolo), ungra (finocchio acquatico comune), caprichéddu (silene), melàcra (acetosella), ermulàntza (ravanello selvatico), beda (bietola), graminzone (crespigno), venale (sedano d’acqua), gurtezone (costolina), e tante altre:

in base al livello di competenza e alla disponibilità della campagna si arrivano a raccogliere più di 20 primizie.

Per la preparazione de s’erbuzu, le erbe vengono tritate finemente, messe a bollire insieme a fagioli e/o patate e insaporite con lardo e/o cazau de murza, la cagliata in salamoia.

Con un certo spirito di innovazione, molte di queste erbe oggi le ritroviamo in frittelle o frittate, torte salate, primi piatti o contorni, confermando quanto la ricchezza della campagna si possa rivelare pregevole fonte di gustose emozioni.