È il ritmo che proviene dall’ensemble tipica di Gavoi a far da traccia ai grandi balli:

su tumbarinu (il tamburo) dalle vibrazioni evocative, su pipiolu ricavato dalla canna palustre, su triangulu in ferro battuto forgiato dai fabbri, e l’organetto diatonico, sos sorgonittos, suonato da uomini e donne, mentre una voce accompagna e intona i versi in limba tramandati oralmente tra le generazioni.

Menzione a parte merita su tumborro o serraggia, strumento costruito con una vescica di maiale rigonfia ed essicata, usato in passato anch’esso per accompagnare il ballo.

Tra i versi di poeti locali e le testimonianze, come quella di Vittorio Angius redatta nella prima metà dell’Ottocento per il Dizionario Casalis, si scorge l’importanza del tamburo tra gli strumenti cardine di Gavoi:

«Il ballo è il divertimento comune e si fa o al concerto del coro o al suon del tamburo, o alla melodia delle canne» (sas launeddas).

Tuttavia, considerata la fattura e il timbro che rendono lo strumento tra i più antichi dell’umanità, la tradizione gavoese ad esso legata è, con tutta probabilità, di più atavica origine.

Il tamburo – su tumbarinu

Pochi e poveri materiali per un suono evocativo e unico: il tamburo e le sue vibrazioni hanno viaggiato nella storia dell’umanità attraversando millenni e civiltà, cavalcando mode, superando guerre e carestie e, nel caso del tamburo di Gavoi, sopravvivendo perfino a sas istoccadas.

C’è stato un tempo in cui i tamburi nel paese si contavano sulle dita di una mano e i rari esemplari erano ben protetti e difesi da chi tentava di forarli (istoccare), gesto considerato un insopportabile oltraggio. Come accadeva a Carnevale, per esempio, quando nei gruppi in maschera, sas cambaradas, qualcuno portava con sé un grosso bastone di legno, sa matzucca, per usarlo come deterrente a difesa del prezioso strumento.

Oggi i tamburi sono centinaia e in ogni casa ne è presente almeno uno.

Il processo di ripristino e diffusione dello strumento ha avuto inizio nei primi anni Ottanta del Novecento, quando qualche anziano insegnò la tecnica costruttiva ad alcuni ragazzi interessati ad apprendere l’arte; da allora è stato un susseguirsi di scambi di pelli, migliorie nel processo di costruzione e nascita e battesimi di ulteriori tamburi.

La passione e la tradizione non erano scomparse, solo assopite.

Il tamburo può essere fatto di pelle di capra o capretto, alle volte anche pecora; può essere con criccos (cerchi in legno) che proteggono e tengono tesa la pelle, o senza; dotato di cassa in legno o sughero, suonato in solitaria, accompagnato dagli altri strumenti o centinaia di altri tamburi, come accade per Sa Sortilla del Giovedì Grasso.

La potenza delle vibrazioni del tamburo, in qualsiasi caso, si mantiene magica, emozionante e ancestrale.

Audiotesto 2